BARLETTA – 50 ANNI FA IL CROLLO IN VIA CANOSA, UNA TRAGEDIA ITALIANA DA PRIMA PAGINA
• Come un terremoto ma quel crollo a Barletta non fu una fatalità

Mezzo secolo. Sono passati cinquant’anni da quel terribile 16 settembre del 1959, quando all’alba, verso le 6.30 un edificio di cinque piani al civico 7 di via Canosa crollò lasciando sotto le macerie 58 vittime. Quella tragica mattina gli abitanti del quartiere Borgovilla avvertirono distintamente come una scossa di terremoto, mentre i più, ricordano il suono delle sirene di pompieri e ambulanze, queste ultime costrette a rifare il tragitto più volte per trasportare i numerosi feriti. In pochi attimi si era sbriciolata una costruzione nuova, abitata da appena sei mesi e la notizia rimbalzò subito sulle cronache nazionali destando grande scalpore.
LE CREPE -Alcuni testimoni ricordarono di aver visto, nei giorni precedenti il disastro, delle crepe consistenti lungo tutto l’edificio. «La Stampa» titolò così il pezzo dell’inviato: «La fatalità non basta a spiegare la sciagura». La tragedia assunse subito contorni inquietanti. Man mano che si raccoglievano le testimonianze, appariva sempre più evidente che non si era trattata di fatalità, ma che vi era stata la colpevole e cosciente negligenza umana.
Barletta all’epoca contava circa 65.000 abitanti e per venire incontro alle esigenze di un paese in costante crescita l’ammi - nistrazione comunale aveva varato una politica di espansione e di sviluppo economico che comprendeva diversi settori. Quello edilizio subì così un rilancio, sull’onda della ricostruzione avviata subito dopo la seconda guerra mondiale.
RISPARMI CRIMINALI -Di fronte alla crescente richiesta di abitazioni, molti furono i barlettani che si improvvisarono imprenditori edili, risparmiando sui costi dei materiali e approfittando della congiuntura favorevole. Questo il quadro complessivo che emerse nel corso del processo che giudicò i responsabili del tragico crollo. Negli atti, i periti dichiararono senza ombra di dubbio che l’edi - ficio poggiava su fondamenta del tutto inconsistenti. Per rinforzare il cemento, infatti, non era stato utilizzato ferro ma bolo, una sostanza argillosa che conteneva ossidi di ferro, più a buon mercato ma molto meno resistente del ferro, appunto. Dal cumulo di macerie «schizzarono solo mattoni, mattonelle, blocchi di tufo, terriccio, bottiglie e lattine vuote ed anche immondizie messe lì come riempitivo», come riportò «La Gazzetta del Mezzogiorno».
IL PRESIDENTE GRONCHI -Il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi annullò tutti gli impegni presi per portare la solidarietà di tutti gli italiani ai parenti delle vittime e ai feriti, presenziando ai solenni funerali celebrati all’aperto in piazza Roma, di fronte ad una folla silenziosa annichilita dal dolore. Ancora oggi, nella statistica dei «crolli di civili abitazioni» dal dopoguerra a oggi, Barletta conserva il suo triste primato. Poco più di una decina di anni fa, il Comune volle ricordare con una strada le vittime del tragico crollo di via Canosa, proprio nei pressi del luogo della sciagura dove oggi sorge un nuovo edificio.
Marina Ruggiero

• Il collaudo dell’edificio non fu mai effettuato

Quel nuovo palazzo di cinque piani in via Canosa numero 7 si afflosciò all'alba come un castello di carta diventando una tomba collettiva. Le leggerezze progettuali e realizzative di quell'immobile di prorietà della ditta «Turi e Doronzo» emersero subito dalla relazione tecnica sul tragico crollo, sottoscritta tre giorni dopo dall'ingegnere capo R. Rivelli del Genio Civile di Bari: abuso edilizio, esecuzione non a regola d'arte delle opere, squilibrio statico nella sopraelevazione su una struttura preesistente. La relazione finì negli archivi del Quirinale ed è ora contenuta (con altra corrispondenza che riguarda questa immane tragedia) nel fondo del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi custodito dall'Istituto «Luigi Sturzo» di Roma.
Il palazzo crollato fu progettato dall'ingegnere barlettano Francesco Lombardi di 37 anni, abilitato provvisoriamente alla professione. I lavori di costruzione terminarono alla fine settembre 1958 ed il parere favorevole della commissione edilizia comunale fu dato il 16 gennaio dello stesso anno. Dalla ricostruzione storica del caso si apprende che il 13 febbraio 1959 un vigile urbano attestò «la corrispondenza dell'opera effettivamente eseguita al progetto approvato».
In realtà tale attestazione risultò inesatta, perché il collaudo dei lavori non fu richiesto né effettuato. Dai 17 appartamenti previsti ne furono edificati 20, sopraelevando di quattro piani uno stabile esistente (di proprietà della dittà Marozzi ed adibito ad autorimessa di pullman) a forma di trapezio della superficie di 720 metri quadrati, risalente al 1942. Si accertò, dai frammenti recuperati dopo il crollo, che i muri dell'immobile con la facciata principale su via Canosa e quella posteriore verso via Madonna della Croce avevano uno spessore di 70 centimetri ed erano formati da tufo e da un nucleo centrale costituito da un impasto di terra vegetale di natura argillosa e malta di calce sabbia. Materiale inadeguato e «laterizi non del tipo specifico dei solai ma semplici mattoni forati comunemente adoperati per la costruzione di muri divisori», si scrisse nella relazione del Genio Civile. «La causa del crollo è essenzialmente da attribuire ad un fenomeno di schiacciamento verificatosi nelle strutture preesistenti - sostenne l'ing. Rivelli - assolutamente inidonee per dimensioni e per tipo costruttivo, nonché per pessima fattura originaria, a sopportare le nuove condizioni di equilibrio statico imposte dai carichi trasmessi dalla sopraelevazione».
Luca De Ceglia

• Così adesso la città prova a non dimenticare

«Quei morti, quelle giovani vite stroncate sotto cinque piani di un palazzo disintegratosi su se stesso furono infatti chiamate “i martiri dell’edilizia”, ed oggi l’edilizia, che occupa come sempre un posto di primissimo piano nelle beghe della politica strillata come pure nei corridoi dove si contano voti e licenze di costruzione, ha un debito da regolare con la storia proprio in onore di quei morti uccisi da chi credeva che tirar su un palazzo fosse solo un’im - presa dove arricchirsi facile». Così Nino Vinella, giornalista e portavoce del gruppo di lavoro “Bar - letta Via Canosa Settembre 1959-2009: dalla malaedilizia dei crolli alla giusta edilizia per tutti nella città che cambia”, che con il Comune ha organizzato una serie di manifestazioni in occasione del cinquantesimo anniversario della tragedia.
«Negli Anni Cinquanta - continua Vinella - a Barletta manca un Piano regolatore, che verrà adottato solo nel 1967, si va avanti con singole lottizzazioni dovunque si può costruire su di uno spiazzo vuoto o su di un’area “utile” a chi vede l’affare. In quegli anni di edilizia selvaggia, arriva un primo lugubre segno premonitore. Nella notte dell’Imma - colata, lunedì 8 dicembre 1952, in via Magenta, nel popolare quartiere della zona Macello, la pioggia sbriciola due caseggiati di tufo e terra su tre piani: diciassette morti. Ma il peggio arrivò alle prime luci dell’alba di mercoledì 16 settembre 1959, quando la città viene svegliata da un boato e da una immensa nuvola di polvere».
Ancora: «Dopo la rimozione delle macerie, quel suolo del crollo è rimasto per anni chiuso da un muro di recinzione. Un vero e proprio “buco nero” nel tessuto urbanistico. Nessuno ci voleva tornare a costruirvi: dopo la ricostruzione dell’intero isolato negli anni Ottanta, sparivano le ultime tracce materiali del crollo, mutava la viabilità circostante con la successiva costruzione nel 1993 del cavalcaferrovia tra via Imbriani e via Canosa, sotto il quale sarebbe stato definitivamente “se polto”, pare, anche lo stesso ricordo di quella tragedia, affidata finora solo al nome della nuova piccola strada “16 settembre 1959” in onore delle vittime del crollo, tra via Canosa e via Madonna della Croce.
Cinquant’anni dopo, i familiari delle vittime, costituitosi in un attivo Gruppo di lavoro, hanno deciso di ricordare con un articolato progetto dal titolo “Barletta Via Canosa 1959-2009: dalla malaedilizia dei crolli alla giusta edilizia per tutti nella città che cambia”, con i vari apporti scientifici di competenza (Politecnico di Bari, Archivio di Stato, il Fondo Giovanni Gronchi dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, il Centro studi Cisem di alta formazione e ricerca di Bari, il patrocinio dei Comuni di Barletta, Roma e Foggia dove si sono verificati più di recente altri analoghi episodi), sotto l’alto Patronato della Presidenza della Repubblica.
Oggi, martedì 15 settembre, alle 17, al Brigantino 2, sulla litoranea di Levante, si tiene la presentazione del documentario tv «Barletta 16 settembre, il crollo di via Canosa: una tragedia italiana in prima pagina». Interverranno il sindaco di Barletta, ing. Nicola Maffei; l’ing. Duilio Maglio, testimone dell’epoca e tecnico delle costruzioni relazionerà su «8 dicembre 1952 - 16 settembre 1959, i crolli di Barletta: cause e considerazioni»; l’ing. Giuseppe Gorgoglione, presidente Ordine Ingegneri Provincia di Barletta-Andria-Trani parlerà su «Norme tecniche per le costruzioni: evoluzione con nuovi standard di sicurezza»; il prof. Ing. Amedeo Vitone, docente al Politecnico di Bari, interverrà su «Crolli di edifici: l’esperienza, la prevenzione, la normativa tecnica vigente»; il dott. Antonio Savasta, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trani, interverrà su «L’attività della magistratura nei controlli sull’edilizia». Moderatore: Nino Vinella, giornalista e portavoce del Gruppo di lavoro «Il crollo di Via Canosa a Barletta nella stampa italiana: una lezione di grande giornalismo fra inchiesta e denuncia». Domani, mercoledì 16 settembre, alle 19, nella basilica del Santo Sepolcro, santa messa di suffragio. L’attore Manrico Gammarota leggerà componimenti e brani scelti. Interverranno la corale polifonica «Mauro Giuliani» diretta dal maestro Pino Cava, e gli organisti Natale Rizzi e Gabriella Catacchio.

• «Lucia e Nino seppelliti dalle macerie al ritorno dal viaggio di nozze»

Lucia aveva 22 anni, Nino 28. Erano entrambi giovani, belli, innamorati, insegnanti di Liceo, e si erano sposati il 9 luglio 1959. «Una bella cerimonia, con parenti e amici. Tanti regali, e soprattutto tanto amore. Partiti per un lungo viaggio di nozze, erano tornati dopo circa un mese…» racconta come se fosse accaduto tutto ieri Maria Straniero, sorella maggiore di Lucia, la giovane professoressa di arte che si perse nelle macerie di via Canosa insieme allo sposo Nino quella tragica mattina del 16 settembre di 50 anni fa.
«Al ritorno dalla luna di miele avevano cominciato sistemare la casa, ed ogni pomeriggio ricevevano gruppi di amici e parenti per far vedere loro l’appartamento, le foto ed i filmati del viaggio. La sera del 13 settembre c’eravamo tutti, eravamo numerosi, ed era proprio una bella festa. Improvvisamente qualcuno nel corridoio osservò che tutta la parete era attraversata da una lesione orizzontale, che al momento del nostro arrivo non c’era. Lucia e Nino dissero che anche in altre parti l’avevano notata e che l’ingegnere (avvisato del fatto) aveva detto che si trattava di un difetto dell’intonaco di quella nuovissima costruzione. Continuammo a festeggiare fin dopo la mezzanotte. Quando andammo via, un nostro amico prese una chiave dalla tasca e la infilò in quella lesione, facendo notare di quanto fosse
aumentata in un paio d’ore. Dicemmo agli sposi di accertarsi meglio dall’ingegnere, e andammo via soddisfatti della festa, complimentandoci per la bella casa: Lucia e Nino sembravano a tutti più felici e innamorati del solito, anche perché ci avevano detto di essere in attesa di un bambino».
Il mattino dopo. Il 16 settembre 1959, alle 7 del mattino «una telefonata svegliò mio padre - racconta ancora Maria – per dirgli che nella casa della figlia Lucia era successo qualcosa, e che bisognava andare a vedere. Mio padre non disse nulla a mamma, e corse terrorizzato a casa mia a chiamare mio marito chiedendogli di accompagnarlo per vedere cosa fosse successo. Io mi ricordavo della lesione, ma non volevo pensare al peggio. Invece era successa una delle più grandi tragedie del secolo».
«Quando tornò papà, stravolto dal dolore ci diede la notizia. E sembrò a tutti di impazzire. Mia madre, Rosaria, poco più che quarantenne, si trascinò nella chiesa dove andava ogni giorno a messa, e dove due mesi prima si era sposata Lucia. Inginocchiata, attraversò tutta la chiesa piangendo di dolore e supplicando la Vergine di Pompei di farle trovare la figlia ed il genero ancora vivi. Fu riportata a casa da due medici chiamati con urgenza perché, svenuta, non riusciva più a riprendere conoscenza. Io ero incinta, bloccata a casa, guardata a vista dai parenti che non volevano farmi andare a vedere la tragedia. Cercavo di attingere notizie, sentivo le ambulanze che passavano sotto casa in continuazione, e le sirene si univano strazianti alla disperazione e ai pianti della mia famiglia: tre giorni di speranza, ma dal cumulo di macerie vennero estratti solo c a d ave r i » .
Allineati all’interno del cortile dell’ospedale, «alla 57esima vittima non c’era ancora traccia di Lucia e Nino. E tutti speravamo nel miracolo. Che non avvenne: li trovarono per ultimi. Lei con la vestaglia sulle spalle e lui con i pantaloni infilati e la camicia fra le mani, forse cercando di scappare. Ma furono ingoiati dalle mura della loro casa e dall’egoismo e dall’ingordigia di chi aveva capito il pericolo, ma per non compromettere la vendita degli appartamenti ancora liberi non aveva avvisato nessuno».
Tra i resti recuperati «l’abito da sposa strappato e sporco di fango. Mia sorella l’aveva indossato due mesi prima, credendo di andare incontro alla felicità. Lo nascondemmo per non farlo vedere alla mamma».