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Mensile telematico di archeologia, turismo, ambiente, spettacolo, beni e attività culturali, costume, attualità e storia del territorio in provincia di Barletta–Andria-Trani e Valle d’Ofanto

Iscritto in data 25/1/2007 al n. 3/07 del Registro dei giornali e periodici presso il Tribunale di Trani. Proprietario ed editore: Comitato Italiano Pro Canne della Battaglia - Barletta (BT)

 

01/10/2015.  BARLETTA - "IL SEGNO DELLA CROCE": RACCONTO AUTOBIOGRAFICO DI NINO VINELLA SULLA GIORNATA DELLA MEMORIA PER LE VITTIME DI MALAEDILIZIA (VIA MAGENTA 1952, DICIASSETTE MORTI, VIA CANOSA 1959 CINQUANTOTTO VITTIME, VIA ROMA 2011 CINQUE GIOVANI VITE SPEZZATE .

IL SEGNO DELLA CROCE é il titolo del racconto autobiografico di Nino Vinella per i Lettori della Gazzetta sulla Giornata della Memoria in ricordo di tutte le Vittime di malaedilizia (1952, diciassette morti, 1959, cinquantotto scomparsi, 2011, cinque vite spezzate)

“Nino, mi raccomando: quando passi lì davanti, cammina in silenzio, fermati e recita una preghiera, anche per me. L’Eterno riposo. In quel posto, dieci anni fa quando tu eri bambino, io ci sono stata a vedere con papà e te in braccio: lo sai, sono morte tantissime persone… E’ un camposanto. Non te lo dimenticare. Mai. Mi raccomando: fatti il segno della croce. Prima e dopo la preghiera”.

Mamma me lo diceva quasi ogni giorno. Come tante altre cose della città che mi raccontava. Non per paura che io me lo dimenticassi. Era il suo modo sincero di mantenersi in cuore quel ricordo assieme a tanti altri. Lei che trascorreva i pomeriggi a recitare il Rosario. Io la sentivo dalla mia stanza sui tetti, in fondo alla nostra casa di Piazza Plebiscito, quando con mio fratello Pasquale ripassavamo la lezione per il giorno dopo. “Si, mamma, lo faccio anche oggi come lo faccio sempre”.

Le diedi un bacio sulla guancia e me ne uscii dalla porta, scendendo quelle scale altissime con un gradino che ne valeva due. Il Cassandro, dove frequentavo il secondo anno della ragioneria, e tirava aria di occupazione studentesca, stava dall’altra parte della città, ma io avevo gambe lunghe ed il fiato non mi mancava, allora…

Fuori dal portone era una giornata d’ottobre, col sole, in quell’autunno barlettano del 1969 dove si respirava l’aria umida dello scirocco che saliva dal mare di Ponente. La fontanina alla girata era stata lasciata aperta, come sempre. Le bidelle dell’asilo infantile spazzavano il marciapiedi. La maestra Dicorato usciva dal portoncino e andava alla d’Azeglio. Io la salutai: “Buongiorno, signorina” feci. E lei, sorridendo: “Ah, buongiorno, buongiorno, Nino. Mamma come sta?” Bene, risposi e tirai avanti.

Da via Consalvo da Cordova girai lo sguardo alla casa delle zie, le signorine Rachele e Rosaria, dove passavo tutti i pomeriggi a fare i compiti. Abitavano da zitelle nel quartino sopra quella che fu la bottega di mio padre, il pittore Biagio, e prima ancora di mio nonno, il sellaio Vitantonio, del quale portavo il nome… Rachele e Rosaria sferruzzavano a maglia, e ci guadagnavano anche qualcosa con i loro lavori che andavano a ruba nel giro delle amicizie di signore borghesi.

Raggiunsi via Imbriani tagliando piazza Roma. I negozi alzavano le saracinesche. Qualche donna con la borsa della spesa al mercatino di frutta e verdura di via Mura Spirito Santo, lì a due passi, vicino ad un vecchio caseggiato uguale a tanti altri.

Il passaggio a livello in fondo a via Imbriani era aperto, come quell’altro di via Milano. Un miracolo. Io lo attraversai guardando a destra ed a sinistra, caso mai la littorina da Spinazzola fosse sopraggiunta senza fischiare...

E fui subito lì, sul lato a sinistra di quella strada dritta dritta verso la periferia, che portava davanti a quel muro bianco alto il doppio di me, con quelle strisce rosse dipinte come se fosse un luogo da tenere inaccessibile.

Dentro non c’era niente, vuoto totale, assoluto, lo sapevo… Una enorme spianata senza niente dentro. Circondato dai palazzi e da un silenzio spettrale che ti entrava dentro anche nel rumore delle macchine sulla strada, specie a quell’ora di mattina presto.

Era un muro fatto di tufi, ricoperti con una mano di calce bianca e quelle strisce. Colore rosso. Come il sangue. Sembrava il recinto di un cantiere abbandonato da sempre, lì a due passi dalla ferrovia…

Io camminavo svelto, mi dicevano proprio come mio padre. Ma a quel punto rallentai e mi fermai. Proprio davanti in mezzo a quel muro.

Mi feci il segno della croce, tenendo i libri e i quaderni a terra, fra i piedi uniti.

Chinai la testa, ad occhi socchiusi pensai a Mamma e recitai sotto voce: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo… L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen”. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo...”
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Mercoledì 16 settembre 1959, alle ore 6 e 40, in via Canosa 7, un palazzo di quattro piani rovinò al suolo travolgendo nel suo crollo 58 fra uomini, donne, anziani e bambini: tutte vittime di malaedilizia. Su quello stesso suolo hanno deciso di ricostruirci un palazzone ed il cavalcaferrovia ha cancellato il resto. Ma non la memoria della tragedia, del dolore, dei lutti che ancora ci portiamo nel cuore.





 

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