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02/12/2010.  ARCHEOLOGIA - DOPO POMPEI (E CANNE). AMIAMO LE ROVINE SE NON DIVENTANO MONUMENTI.

Un articolo ed una riflessione di Saverio Fossati sul Sole 24 ore per ragionare insieme ed interrogarci tutti su quanto accade nella nostra Cultura dopo i "crolli" di cui, ancora prima di Pompei, é tuttora vittima anche Canne della Battaglia


IL TOUR VIRTUALE A POMPEI SU YOU TUBE...


http://video.ilsole24ore.com/SoleOnLine5/Video/Notizie/Italia/2010/pompei-tour-virtuale/pompei-tour-virtuale.php


Dopo Pompei. Amiamo le rovine se non diventano monumenti


di Saverio Fossati


Il mito del forziere del tesoro sepolto, la cassa in cantina con la vecchia uniforme militare, l'angolo polveroso dell'oratorio dove si giocava a nascondino. E persino il vecchio minimarket di quartiere, diroccato e coperto di gramigna, dove s'andava a far spesa. La villa coloniale o neogotica dei terrori americani, in cima alla collina dove le braccia degli alberi si protendono a ghermire lo spettatore, la polvere ridisegna la mobilia e la ricchezza perduta è nascosta nel pianoforte gonfio d'umido. Rovine. Rovine emozionanti che inspiegabilmente parlano a chi le guarda senza mediazioni culturali o sensi di colpa.


Esattamente come le colonne cadute, gli archi spezzati, le mura in piedi per miracolo, le torri diroccate, i famosi quattro sassi che infastidiscono i piani regolatori e le varianti autostradali. Quelli che gli archeologi eleggono ad altare dei propri sogni ricostruttivi, testimonianza delle immagini che proiettano nei libri e nei documentari: era così, immaginatevela così, sui mattoni corrosi lastre di marmo, in alto i cassettoni di legno o o affreschi dai vividi colori, e l'angolo del mosaico si spande come olio sino a raffigurare una scena di battaglia, satiri, ninfe o qualche Dioniso sonante. Invece troviamo cartelli, transenne, polverosa terra battuta. E cosa vorremmo trovare? Forse edera, cielo, mentuccia e trifoglio che si stagliano sui sassi, sederci sull'architrave in marmo caduta e mezzo sprofondata nel terreno.


E nessuna spiegazione, audioguide o percorsi segnati. Noi, tranne rarissime eccezioni, non siamo archeologi o storici dell'arte. Pochi sono anche antropologi e antichisti. Noi siamo le moltitudini condannate all'emozione inconsapevole, al benevolo disprezzo didascalico di chi ne sa cento volte più di noi. Ma le rovine ci sono care, forse anche più che a loro. Tutte le rovine. Quelle delle nostre vite e delle vite altrui, che ci accolgono a suggellare la riconciliazione tra passato e presente. A rassicurarci. Le rovine non sono soltanto la testimonianza del passato, tangibile e tanto più vera quanto ricordata: il Colosseo, oggi principe dei monumenti, ci parla anche dei mille che hanno scritto di lui, che lo hanno disegnato, dipinto o fotografato, rappresenta il trascorrere del tempo e la caducità degli imperi. Certo, c'insegna molto sull'architettura e l'ingegneria, il costume sociale, l'urbanistica e chi più ne ha più ne metta. Come Pompei. Tuttavia non è tutto, non sarà mai tutto.


Per capire il vero significato delle emozioni che suscitano le rovine, imponenti o appena emergenti, celebri o sconosciute non basta riferirsi alla loro funzione didattica o testimoniale, a quello, cioè, che "dimostrano" ma occorre cogliere ciò che noi mostriamo attraverso di loro. E forse capiremo perché ci addolora la caduta della casa dei gladiatori, al di là dell'indignazione degli addetti ai lavori e dell'indifferenza ostentata degli animali parlanti che hanno parlato dei famosi quattro sassi. Il Colosseo è stato per secoli la meraviglia degli artisti, pittori e scrittori d'Europa e delle Americhe (non stiamo a fare lo sfoggio fasullo di elencarli, tanto li conosciamo tutti) hanno fantasticato sui cipressi e sui fiori che crescevano nell'arena e sul crocifisso che ricordava i martiri (mai esistiti).


Ma nel 1870 il Colosseo è passato da rovina a monumento: affidato agli archeologi, con le migliori intenzioni, è diventato La Testimonianza Della Grandezza di Roma. E non è un caso che, mentre dopo il 1870 ha cessato di emozionare gli artisti, ha invece colpito qualcuno che delle rovine aveva un'idea tutta sua: Adolf Hitler, che dopo la visita ufficiale del 1938 spense gli ardori cementizi di Speer per costringerlo ad adottare il marmo per gli edifici a gloria del Reich: nel Colosseo vedeva il monumento, non la rovina.


Lo stesso Speer, del resto, aveva tratto ispirazione (ahimè) dall'immagine goethiana della folla nel Colosseo che esprimeva un "unico spirito", per progettare la grande sala di Norimberga per i congressi del partito. Eccoci, quindi, alla vera distinzione che ci fa capire perché noi vogliamo, sappiamo e possiamo emozionarci tra i quattro sassi: è la distinzione tra rovina e monumento. Quando la prima cede il passo al secondo, ne traggono vantaggio la storia e la conoscenza scientifica.


Ma per noi diventa solo un altro mattone nel complesso edificio della nostra cultura. Noi, invece, vogliamo scoprire le rovine attraverso il gioco a rimpiattino della natura che se ne è impossessata, o dietro una delle mille dune del deserto libico, o sotto uno specchio d'acqua tranquilla. Solo così sentiamo davvero, anche senza capirlo, il fascino della decadenza e della morte e, di riflesso, l'appagante sensazione che noi, invece, siamo vivi. Lord Byron, l'uomo che, con la mediazione della sua poesia, ci ha aiutato a cadere in fondo all'anima, per poi tornare più ricchi alla nostra modesta vita quotidiana semplicemente chiudendo i suoi libri, aveva scelto di vivere in una rovina.


L'ex abbazia di Newstead sembra uscita da un racconto neogotico e non è un caso se a cavallo di quel periodo fiorì, soprattutto in Inghilterra, la moda delle folies, rovine artificiali appositamente costruite per simulare paesaggi romantici, il cui modello erano la mitica (per gli inglesi) campagna romana o le rovine medioevali, radici dell'aristocrazia contemporanea. Per Byron i resti di Newstead, parzialmente abitabili, erano i resti della sua famiglia, che l'aveva rilevata ai tempi della secolarizzazione di Enrico VIII. Proprio come il Child Harold. Ecco, con uno tra i mille esempi possibili, cosa cerchiamo tra le rovine: le nostre radici. Questo spiega che le rovine sono solo ricordi, siano anche ancestrali o sepolti, delle nostre vite, e non monumenti, che non ci appartengono veramente.


E questo spiega anche perché alcune tra le più significative e profonde opere letterarie del XX secolo abbiano rovine sullo sfondo. Non si tratta tanto di preconizzare i disastri del secolo quanto di evocare le uniche certezze tangibili che si offrono all'uomo smarrito: le vestigia del suo passato, più o meno simboliche. Non si tratterà di scenari del futuro ma del passato, dove la decadenza onirica si piega gentilmente al vagare del protagonista. Due esempi, anche qui assolutamente arbitrari perché è inutile dilungarsi: Casa La vita di Alberto Savinio e L'altra parte di Alfred Kubin.


Ma facciamo un ultimissimo volo, nel cinema, quello più pop e spettacolare; cosa troviamo nel Signore degli Anelli, del resto in piena sintonia con il romanzo? Rovine, rovine e ancora rovine. Le nostre, per sempre.


http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-11-30/dopo-pompei-amiamo-rovine-191047.shtml?uuid=AYc7B4nC


 






 

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