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Mensile telematico di archeologia, turismo, ambiente, spettacolo, beni e attività culturali, costume, attualità e storia del territorio in provincia di Barletta–Andria-Trani e Valle d’Ofanto

Iscritto in data 25/1/2007 al n. 3/07 del Registro dei giornali e periodici presso il Tribunale di Trani. Proprietario ed editore: Comitato Italiano Pro Canne della Battaglia - Barletta (BT)

 

14/12/2017.  BARLETTA - LA PUGLIA DEI TEATRI: ECCO LA STORIA DEL "CURCI" E DELLE SUE TRE VITE. 145 ° DELL'INAUGURAZIONE (1872). 140° DELLA INTITOLAZIONE (1877). 40° DELLA RIAPERTURA AL PUBBLICO (1977). NEL RACCONTO DEL GIORNALISTA E STORICO MICHELE CRISTALLO .

Il 2017 é stato un anno importante per la storia del Teatro comunale "Giuseppe Curci" di Barletta. Triplice anniversario: il 145° dell'inaugurazione, avvenuta il 6 aprile 1872, il 140° della intitolazione (5 agosto 1877) ed il 40° della riapertura, domenica 18 dicembre 1977.

Di Michele Cristallo, affermato giornalista e storiografo appassionato, pubblichiamo questo articolo, corredato da una minuziosa ricostruzione su fonti documentarie per l'anniversario dell'inaugurazione e della intitolazione, noché basato sulle proprie testimonianze personalissime per il quarantennale della restituzione alla fruibilità pubblica dopo il prezioso e paziente restauro...

"Non possiamo parlare della storia del teatro e dei teatri di Barletta senza accennare alla Puglia della Puglia dei teatri E non possiamo parlare della Puglia dei teatri senza andare con la memoria a ciò che il teatro ha rappresentato e rappresenta per i pugliesi.

Le origini di questa passione sono antiche e ci riportano all'XI secolo quando, per esempio, sul sagrato della Cattedrale di Bari erano frequenti le rappresentazioni in latino e in lingua volgare. Era l'epoca nella quale era forte l'attenzione per le sacre rappresentazioni che allo stesso tempo erano spettacolo e strumento di educazione religiosa. Si attingeva alla Bibbia, ai Vangeli, alla Vita dei Santi, per ricavare situazioni di forte drammatizzazione e incidere sulla devozione popolare.

Ancora oggi quelle forme di spettacolarizzazione sono presenti nei riti della Settimana Santa in un gran numero dei nostri paesi.

E si continuò su questa strada anche nei secoli successivi. La moda del teatro si consolidò nel Seicento quando si faceva strada anche l'amore per il teatro profano, per la commedia dell'arte, sull'onda dell'influenza napoletana.
In quel periodo erano numerose le compagnie napoletane :pochi attori sotto la guida di un istrione, che si fermavano nelle nostre contrade per rappresentare farse di scarso spessore artistico, spesso discutibili sotto il profilo del buon gusto.

Benedetto Croce nell'opera "I Teatri di Napoli", ci ricorda che nel 1649 il duca di Andria, per festeggiare la nascita del suo primogenito Fabrizio, fece rappresentare la commedia "Sdegni placati" di un autore di Ruvo, Antonio Avitaia.

Il Settecento segnò una svolta importante: le rappresentazioni erano ridotte in forma di melodramma e si faceva strada la tendenza delle Accademie, delle Municipalità, della ricca borghesia in favore dei teatri stabili.

Trani fece da battistrada con il primo "teatro fisso" inaugurato nel 1722 e realizzato dall'Accademia dei Pellegrini. Il fronte era ormai aperto, i tempi erano maturi per la vera e propria esplosione dell'Ottocento. E così, all'inizio del nuovo secolo, la corsa al teatro si sviluppò in piena libertà. Ne sorsero di ogni tipo, abusivi e non, persino stamberghe erano state adattate a sala teatrale.

Napoli faceva scuola. La cultura partenopea, in tutte le sue espressioni, esercitava un forte fascino, soprattutto nelle province più vicine alla capitale del Regno, Capitanata e Terra di Bari. Per letterati, pittori, scultori, artisti in genere, la massima aspirazione era quella di formarsi alla cosiddetta scuola napoletana.

Anche il nostro De Nittis, lo ricordiamo, ebbe proprio a Napoli le prime esperienze che lo avrebbero poi proiettato nella gloria a Parigi e a Londra.

Perché a questo fenomeno non era estraneo il mondo musicale: il San Carlo rappresentava il punto di riferimento più alto. Del resto la capitale del Regno era la patria di formazione e di attività dei nostri maggiori compositori: Nicola Fago, Domenico Sarro, Leonardo Leo, Nicola Bonifacio, Tommaso Traetta, Nicolò Piccinni, Giacomo Insanguine, Giacomo Tritto, Giovanni Paisiello, per citare i "pionieri". Anche il nostro Giuseppe Curci, come vedremo si formò alla scuola napoletana.

Il Teatro - scriveva il marchese Giuseppe Ceva Grimaldi, segretario di Stato dei Borbone - «è come l'arte di ben abbigliarsi che dà sempre una prima e felice impressione: un popolo civile non può e non deve esservi indifferente».
E i pugliesi non vollero rinunciare a questo bell'abbigliamento. Anche se non mancavano i bastian contrari i quali vedevano nel teatro e nei teatranti un pericolo per l'integrità morale delle popolazioni.
Talvolta l'esortazione a realizzare altre opere pubbliche anziché teatri, veniva dalle sedi istituzionali della capitale, come nel caso di Foggia allorché da Napoli si raccomandava ai responsabili della municipalità di impegnare tempo, finanze e energie nella realizzazione di opere meno frivole del teatro.

Ecco un frammento di un documento dell'epoca: "In luogo di pensare a far divertire la gente e di rovinarla colle rappresentazioni, farebbe assai meglio se prendessero a governarla, a farla attendere alla coltura della campagna ed alla pastura degli armenti e col farla abbondare di commestibili e altre cose necessarie al vitto».

Spesso le vertenze vedevano su fronti contrapposti la Chiesa e la nobiltà con la ricca borghesia: In questo caso si risolveva la vertenza con un compromesso: si costruiva una chiesa e un teatro.

Ma la voglia di teatro ebbe la meglio. Nel primo ventennio dell'Ottocento solo nelle province di Bari e Foggia operavano una trentina di teatri che divennero 40 intorno al 1850 e 71 nel 1890. Altri 14 teatri erano operanti in Terra d'Otranto.

E respiravano a pieni polmoni tutto il circuito di spettacoli dell'epoca: dal melodramma alla prosa, alle follie incipriate dell'incalzante Belle Èpoque, alle commedie dei café chantant. Si pensi che in quel tempo in Puglia erano state censite 220 Compagnie di canto, di musica, di arte drammatica, di comiche e così via.

Agli inizi del Novecento, lenta, graduale, ma inesorabile, la svolta che avrebbe portato alla morte il sistema teatrale della regione. La prima guerra mondiale, l'ascesa del fascismo, il fascino, il mistero, la magia dello spettacolo cinematografico, la seconda guerra mondiale, daranno un duro colpo all'entusiasmo che aveva animato le iniziative dei Decurionati dell'Ottocento.

E veniamo a Barletta.

I barlettani hanno sempre amato particolarmente il teatro anche quando non disponevano in loco di una sala di rappresentazioni teatrali. E comunque già nel Seicento la città era dotata di un teatro. Si chiamava "Galera", non perché fosse un carcere, ma perché ubicato in una grande magazzino nella strada Galera, l'attuale via Prospero Colonna. La strada Galera era nei pressi della Cattedrale e l'ingresso al teatro era dalla strada Forno de' Greci (oggi via Ettore Fieramosca).

Apro una breve parentesi. In quella strada verso la fine del XIV secolo fu fondata la chiesa greca di Santa Maria degli Angeli. Fu fondata come chiesa di rito latino. Negli annali del 1500, precisamente nel 1564 è detta "chiesa dei Greci" perché fu costruita in un periodo nel quale a Barletta era residente una numerosa e ricca colonia greca. Tant'è che la chiesa sorge in quella strada anticamente detta Forno de' Greci.

Chiusa la parentesi, torniamo al teatro.

Come ho detto prima, di teatri molti locali avevano solo il nome. Eco cosa scrive a tale proposito Francesco MIlizia, tecnico dell'architettura, storico dell'arte, nato in Puglia a Oria nel1725 ma che operò prevalentemente a Roma«Se non si scrive fuori "questo è un teatro" nemmeno Edipo indovinerebbe l'uso a cui è destinato. Gli ingressi, le scale, i corridoi sembrano condurre non a un luogo di nobile divertimento ma ad una prigione e al più sudicio lupanare». Milizia accenna a Edipo, il mitologico personaggio tramandatoci da Sofocle, perché è uno dei classici più autorevoli e difficili rappresentati in tutti i teatri del mondo.

Il Galera di Barletta non era proprio una stamberga, ma come ci ricorda Francesco Saverio Vista, uno degli storici locali più attenti della fine dell'Ottocento, era«una località ove si rappresentavano quegli spettacoli sacri e profani consentiti, o d'uso in quei tempi». Tempi bui e non solo per le difficoltà della vita, ma anche perché di sera per le strade c'era buio pesto tant'è che negli Statuti c'era un articolo che obbligava «d'essere muniti di lanterna coloro che andavano per le vie della città di notte» con eccezione, però, per«quelli che ritornavano da' teatri alle loro case». Gli spettacoli rappresentati nel Galera non erano proprio dei capolavoro, ma quel teatro era frequentato proprio perché coloro che amavano passare la serata fuori di casa non avevano l'obbligo della lanterna.

Ma anche questo teatrino dopo qualche anno si rivelò insufficiente e si pensò a crearne un altro più capiente. L'occasione fui data dalla decisione del re Carlo di Borbone di sfrattare l'Arsenale dai locali ubicati nel Paniere del Sabato, l'attuale piazza Plebiscito.

Altra piccola parentesi: sapete perché piazza Plebiscito si chiamava Paniere del Sabato?. In tempi molto lontani Barletta era circondata da mura per difendersi dalle periodiche invasioni; lungo le mura erano ubicate le porte per entrare in città: Porta San Leonardo a sud del Castello; Porta Marina (la più antica fu costruita nel 1046 - quella attuale, l'unica in piedi nel 1751); Porta Nuova S. Agostino presso l'omonima chiesa, consentiva l'accesso all'attuale corso Vittorio Emanuele; Porta Croce costruita nel 1156 nell'intersezione dell'attuale corso Garibaldi e via Geremia di Scanno;) Porta Reale al termine dell'attuale Porta Reale che si congiungeva con il Paraticchio.

Ebbene, il Paniere del Sabato era lo spiazzo nel quale si addensavano le merci in attesa di entrare in città attraverso Porta Reale. È stata ribattezzata Piazza Plebiscito dopo il 1861 quando in Italia si svolse il plebiscito, una sorta di referendum con il quale gli italiani furono chiamati ad esprimere la loro volontà sulla nomina di Vittorio Emanuele II re d'Italia.

Dunque il quei locali fu organizzato un teatro che fu chiamato appunto Arsenale. Era un bel teatro ed era frequentato dalla nobiltà dell'epoca. Nel mio libro cito alcuni aneddoti tra i quali uno relativo alla serata del 12 settembre 1748 quando andò in scena "La moglie gelosa". La scena finale prevedeva che la moglie, al culmine di una ennesima lite per gelosia, uccidesse il marito. Naturalmente doveva farlo per finta e per rendere la scena ancora più veritiera, fu chiesto in prestito il fucile a un ufficiale della milizia urbana presente per via del suo ufficio. Ovviamente il gesto dell'uccisione doveva essere mimato, ma accidentalmente partì un colpo che raggiunse il marito in pieno petto: il povero uomo morì sul colpo. Nel 1789 la fama del teatro varcò le mura cittadine perché ebbe molta risonanza la rappresentazione di un'opera di Giovanni Paisiello, celebre compositore tarantino, "La modista raggiratrice".

Barletta all'epoca era un città importante: pensate aveva 17.058 abitanti (Bari ne aveva 18.295), aveva 26 chiese, tre monasteri. Barletta era importante anche perché ospitava il quartiere generale dell'Armata francese che operava in tutta la Puglia, per cui si avvertì l'esigenza di avere un vero teatro all'altezza dell'importanza della città, degna di accogliere i numerosi ufficiali e soldati francesi, e per soddisfare la forte esigenza di cultura musicale della cittadinanza. Si guardava a Napoli che con il San Carlo vantava uno dei più prestigiosi teatri d'Europa.

Nacque così l'iniziativa di un gruppo di cittadini che presentarono una istanza all'Amministrazione municipale. Il 22 settembre 1814, fu convocato in seduta straordinaria il Decurionato, (così si chiamava all'epoca il Consiglio comunale) con un solo argomento all'ordine del giorno: la costruzione di un teatro. La seduta si concluse con un documento nel quale si sottolineava la volontà di un gruppo di facoltosi cittadini di costruire, a proprie spese, un teatro. Questi cittadini avevano già costituito una Società e stabilito il prezzo di 300 ducati per ogni azione. Fu individuata l'area su cui costruire, l'area del soppresso monastero dell'Annunziata, sito nella Strada della Cordoneria, oggi Corso Vittorio Emanuele.

Il monastero insisteva all'altezza dell'attuale sede del Municipio. Comprendeva una chiesa, gli alloggi delle suore e un ampio giardino. Dopo il decreto del re Gioacchino Murat, nel 1810, il Comune ordinò la demolizione del monastero e divenne proprietario del suolo.

Il re Ferdinando I, con decreto del 2 Aprile 1817 autorizzò il Comune di Barletta l'area dell'Annunziata, con l'obbligo di edificare il teatro entro tre anni e di destinare ogni anno uno spettacolo a beneficio dei poveri. C'era anche un'altra clausola: se per qualsiasi motivo il Comitato cittadino decidesse di cessare l'attività del teatro o non fosse in grado di amministrarlo, il Comune ne diventava proprietario. L'incarico del progetto fu affidato all'ingegnere Nicola Leandro, i lavori ebbero inizio subito dopo sotto la direzione di Vincenzo De Nittis, il nonno del celebre pittore, il teatro fu costruito nell'arco di due anni. Fu inaugurato il 4 ottobre 1819. Fu eseguita una cantata del canonico Giuseppe Carbone, compositore barlettano. Il nuovo teatro fu chiamato San Ferdinando, in omaggio al sovrano.

La platea disponeva di 168 posti, i palchi erano 32, divisi in tre file; c'erano 10 camerini per gli artisti, il sipario era stato realizzato dal pittore Raffaele Procacci, rappresentava il Parnaso, il famoso monte della Grecia nei pressi di Delfi e che secondo la mitologia è la sede delle Muse ed è consacrato ad Apollo.

Ma anche il San Ferdinando si rivelò stretto per le ambizioni dei barlettani che ambivano a un teatro prestigioso, come ne aveva inaugurato uno Bari, il tetro Piccinni.

L'occasione propizia si presentò nel maggio 1864 quando crollò un'ala del San Ferdinando. Il Comune attivò la clausola alla quale ho accennato prima e con atto del 28 dicembre 1866 divenne proprietario del teatro, la cui attività, però, non fu sospesa. In un vasto magazzino dell'ex Monastero di Santa Maria della Vittoria fu organizzato alla meglio un teatrino che operò per alcuni anni.

Il Comune aveva intenzione di ripristinare il San Ferdinando, ma fatti i conti, fu dimostrato che la ricostruzione sarebbe stata più onerosa della costruzione di un teatro ex novo. E così 15 maggio 1869 il Comune decise la costruzione di un nuovo teatro sulle rovine di quello esistente. Il progetto fu affidato all'ingegnere Federico Santacroce, capo dell'ufficio tecnico comunali, formatosi alla scuola napoletana del famoso architetto Luigi Castellucci. Furono acquistate alcune case adiacenti perché si voleva un teatro più grande. In effetti Santacroce prolungò la sala, recuperò nuovi spazi per la platea e i palchi, fu realizzato un bel foyer, il vestibolo e la sala da ballo, furono realizzate prestigiose decorazioni, imponenti arredi e impianti ben funzionali.

L'esecuzione delle decorazioni furono affidate al pittore Raffaele Affaitati: il pittore Giambattista Calò, il primo maestro di De Nittis, fu l'autore del telone e del cielo della sala. Lo scenografo del San Carlo Pietro Venier disegnò gli ornamenti dorati delle 42 cornucopie di sala che erano state realizzate dall'indoratore napoletano Caggiano; il macchinista Eusebio Radicchi anch'egli del San Carlo realizzò le otto macchine progettate dal Venier; i due avevano lavorato anche nel Piccinni. Calò dipinse anche il sipario e ovviamente scelse un tema storico locale, la Disfida di Barletta; realizzò anche il secondo telone interscenico nel quale dipinse il monte Parnaso.

La facciata del teatro era scandita da tre grossi archi d'entrata che formavano il portico che introduceva nell'antisala; sugli archi si aprivano cinque finestre ornate da cornici e colonne e, tra queste e il cornicione cinque nicchie con i busti dei musicisti Rossini, Verdi, Bellini, Mercadante e Donizetti.

Un bellissimo teatro, indubbiamente, con una acustica perfetta, all'altezza della competenza del pubblico barlettano.

Il piccolo San Carlo di Barletta fu inaugurato il 6 aprile 1872 con il Macbeth di Giuseppe Verdi. Prima dell'opera verdiana fu eseguita la sinfonia "Italia redenta" del musicista barlettano Giuseppe Curci al quale qualche anno dopo il teatro sarà intitolato.

Per presentarvi il nostro compositore, mi affido alle note scritte da Nicola Ugo Gallo, un giornalista ormai scomparso da anni che di musica e di teatro se ne intendeva essendo nato in una famiglia di compositori e direttori d'orchestra.

Giuseppe Curci nacque a Barletta il 15 giugno 1808 da Angelo, famoso notaio e da Irene Cortese, biscegliese, nella casa di via Cavour 90. Sin dai primi anni d'età manifestò una particolare predilezione per la musica anche se in famiglia nessuno praticasse quell'arte. Il padre voleva farne un notaio, ma Peppino non ne voleva sapere e il padre dovette arrendersi. Lo affidò alle cure dello zio Leonardo, appassionato musicofilo, che insegnò al ragazzo il solfeggio, poi gli mise in mano una chitarra e li insegnò i primi accordi. A 12 anni Giuseppe era in grado di eseguire alla chitarra alcuni spartiti del compisitore barlettano Mauro Giuliani e 14 anni cominciava a strimpellare il pianoforte.

I progressi compiuti indussero il padre ad iscriverlo al Collegio musicale di San Sebastiano a Napoli, il futuro Conservatorio di San Pietro a Maiella. Qui ebbe maestro Nicola Zingarelli con il quale s'erano formati Bellini e Mercadante. Nel 1828 gli fu concesso un breve soggiorno a Barletta nel corso del quale compose una "Messa" che fece eseguire nella Cattedrale e dedicata alla Madonna dello Sterpeto. Negli anni Curci scrisse molta musica sacra, ma anche opere diciamo profane che ebbero molto successo e rappresentate nei maggiori teatri italiani, compreso il San Carlo di Napoli.

Era giovanissimo quando entrò nelle grazie della regina Maria Isabella di Borbone, moglie di Francesco I re delle Due Sicilie. Negli anni successivi si spostò a Milano, Torino, Venezia. Era un bell'uomo e piaceva alle donne per cui oltre al successo come musicista ebbe successo nei salotti dell'aristocrazia europea. Visse per lungo tempo a Pest in Ungheria, a Vienna, a Parigi a Manchester. Sposò la parigina Emma Lebrun Robert.

Nel maggio 1857 rientrò a Barletta per visitare il padre molto malato. Fui accolto trionfalmente ma non aveva una lira in tasca.Gli fu offerta la direzione del teatro Piccinni inaugurato a Bari qualche anno prima. Ma rimase a Bari solo un anno. Tornò a Barletta, rimase vedovo della moglie Emma, colpita da una grave malattia mentale, nel giro di pochi anni morirono tre dei quattro figli.

Morì la mattina del 5 agosto 1877. Aveva 69 anni.
Il Comune di Barletta il 26 settembre dello stesso anno deliberò di intitolare a Giuseppe Curci il nuovo bel teatro.
Il nostro teatro visse una serie di fortunate stagioni. Sul podio del Curci i esibirono i più famosi direttori d'orchestra. Memorabile la serata nella quale Mascagni diresse la sua Cavalleria Rusticana.

Il Curci era un banco di prova per cantanti e direttori d'orchestra. Il loggione del Curci era famoso in tutta Italia per la competenza e la severità di quanti lo frequentavano ed erano i loggionisti a decretare il successo o il fiasco degli artisti che si esibivano a Barletta.

Nel 1899 il Curci si arricchì della Galleria che correva lungo il lato orientale e suppliva alla mancanza di un porticato sul prospetto. La galleria consentiva la sosta delle carrozze e l'accesso diretto al vestibolo.

Lo scoppio della prima guerra mondiale interruppe l'attività del teatro che riprese nel 1909, ma i fasti della fine dell'Ottocento erano ormai un ricordo. Incalzava il Cinema e il Curci dovette cedere alla nuova moda: fu trasformato in sala cinematografica subendo un progressivo degrado come del resto tutti i teatri. Il degrado si fece intollerabile nel 1936 quando il teatro fu chiuso per inagibilità.

Più volte fu manifestata la volontà di cambiare la fisionomia del teatro, di eliminare i palchi per creare un anfiteatro, di arretrare la platea. Per fortuna non se ne fece niente ma non fu possibile evitare lavori di cosiddetta modernizzazione: per far posto alla cabina di proiezione, furono eliminati alcuni palchi e parte delle decorazioni, parte del foyer e dell'antisala.

Il Curci visse un'altra stagione alternando spettacoli di varietà alla proiezione di film. Fino al 1961 quando era talmente malridotto da indurre l'amministrazione comunale a decretarne la chiusura.

Barletta era rimasta orfana del suo teatro, ma la popolazione non cessò mai di insistere per la rinascita del Curci. L'appello fu accolto dall'Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo. Nel 1969 l'Azienda, presieduta dal dott. Ruggero Dimiccoli, direttore il dott. Vittorio Palumbieri, ottenne dal Comune la concessione del Curci con l'impegno di restituirlo all'antico splendore.
Fu una sfida esaltante. Nel 1972 ebbero inizio i lavori di restauro progettati dall'architetto Mauro Civita il quale operò un vero e proprio miracolo.

Il Curci nel giro di cinque anni tornò più bello di prima e il 18 dicembre 1977 l'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, sindaco Armando Messina, inaugurò il Curci restaurato.

La concessione all'Azienda durò dieci anni.

Nel 1988 altra chiusura e altra crisi. Il Comune non riusciva a risolvere il problema della gestione. Intanto era sorta anche la necessità di adeguare gli impianti alle nuove norme per la sicurezza. Occorrevano oltre 600 milioni di lire che il Comune non aveva. Nel 1992 addirittura emerse la proposta di lanciare una sottoscrizione popolare.

Poi, qualche anno dopo la soluzione fu trovata. Il Comune riuscì a finanziare i lavori necessari, a definire una gestione che pare soddisfacente se consideriamo le fortunate stagioni che si susseguono.

Il Curci vive la sua terza vita e speriamo che continui così perché la cultura teatrale è necessaria alla crescita della comunità. Non è solo un fatto economico, ma soprattutto un investimento per lo sviluppo civile e sociale Il teatro è una fonte inesauribile di comunicazione, di conoscenza, di arricchimento culturale e spirituale, oltre che strumento di coesione sociale. Una comunità senza teatro è una comunità povera, che non conoscerà mai progresso.

Il teatro ha anche una grande funzione educativa, insegna al rispetto, al culto di valori universali, quali l'amicizia, la solidarietà, il dialogo, l'accoglienza.

Il teatro è patrimonio universale, è nato con l'uomo e per l'uomo. Non è un caso che sin dall'antichità l'uomo ha avvertito l'esigenza di esprimersi anche in forme teatrali.
Pensiamo all'antica Grecia.

Ed è encomiabile l'iniziativa che ha inserito, nel programma di formazione per la promozione e la conoscenza del territorio, anche ,l'analisi e la documentazione relativa a quel grande contenitore culturale qual è il teatro della nostra città.

MICHELE CRISTALLO


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