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Mensile telematico di archeologia, turismo, ambiente, spettacolo, beni e attività culturali, costume, attualità e storia del territorio in provincia di Barletta–Andria-Trani e Valle d’Ofanto

Iscritto in data 25/1/2007 al n. 3/07 del Registro dei giornali e periodici presso il Tribunale di Trani. Proprietario ed editore: Comitato Italiano Pro Canne della Battaglia - Barletta (BT)

 

28/09/2005.  Comunicazione e media. Problemi inerenti alla questione della verità.

Pubblichiamo un'ampia sintesi della lezione tenuta a Milano l'11 maggio u.s. dal Prof. Andrea Grillo presso la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale (www.ftis.it ).
Il Prof. Andrea Grillo è un laico laureato in teologia dogmatica con indirizzo sacramentario ed insegna presso l'Istituto S. Anselmo di Roma e presso l'Istituto di liturgia pastorale dell'Abazia S. Giustina di Padova (www.abaziasantagiustina.org).

Dal nostro Corrisponte GIOVANNI PATRUNO
Via Valsesia 28 - 20152 MILANO
Tel. 02.48913628 - Cell.347.0083414

«La via regia della semplicità divina e la via della più inaudita illusione corrono parallele nella storia della teologia, in tutti i tempi e in tutti gli sviluppi, separate soltanto dallo spessore di un capello»

K. Barth*




0. Premesse

Vorrei iniziare da alcune importanti premesse metodiche. Il problema principale del nostro tema è costituito da un luogo comune/pregiudizio estremamente insidioso. Ossia dall'idea che la comunicazione sia soltanto un modo di gestione pratica e strumentale (più o meno retta) del rapporto già esistente con la verità. Ciò deriva dall'idea che il rapporto con la verità sia a suo modo immediato (nelle idee/concetti/rappresentazioni per l'intellettualismo e nei "fatti" o nelle "cose" per il positivismo) rispetto a questo centro (ideale o reale) il linguaggio sarebbe soltanto strumento, mezzo, piuttosto che mediazione. L'immediatezza del rapporto con la verità squalificherebbe i media a livello di semplice strumento, rendendone anche secondaria la questione.
Questa visione non è soltanto ingenua, ma di fatto genera una infinità di fraintendimenti. Proviamo ad elencare qui molto semplicemente una serie di prospettive più corrette e che risultano decisive per il buon andamento della nostra conversazione:

a) La "messa in comune" della comunicazione/comunione non è soltanto il punto di arrivo di un percorso, ma è anche il punto di partenza che rende possibile ogni linguaggio. Se vi è linguaggio, è perché vi è stata comunione/comunicazione! Se comunicazione non significa uscire dalla incomunicabilità originaria, ma riattingere alla comunione istitutiva del senso, allora è chiaro che i cosiddetti "media" sono anche responsabili verso la comunione da cui tutti proveniamo . Da un certo punto di vista, invece, la presunzione liberale di una reciproca estraneità originaria tra individui, conduce alla comunicazione/comunione come ad un "caso limite" del linguaggio, quando posso davvero superare le barriere che chiudono irrimediabilmente ogni "individuo" in se stesso.

b) La nostra prima affermazione non vuole soltanto capovolgere lo schema, ma vuole articolare l'esperienza in modo duplice: da un lato si tratta scoprire una comunicazione/comunione che rende possibile il linguaggio come evento comunicativo; dall'altro di far dipendere tale esperienza dalle forme linguistiche (articolate) che vengono sperimentate, che sono anche sempre esperienze di comunione. In sostanza, si tratterebbe di scoprire come esperienza ed espressione siano strttamente correlate e costituiscano - in quanto tali - il terreno di quella comunione di cui si tratta in ogni comunicazione.

c) Questa duplice premessa si oppone al duplice pregiudizio secondo cui, da una lato il linguaggio è solo strumento del comunicare, e dall'altro che esso non interferirebbe con l'oggetto da comunicare. I media - da un lato - non sono soltanto strumenti, ma sono parte dello stesso messaggio (Mc Luhan, Understanding Media); dall'altro contribuiscono a illuminare (o oscurare) il messaggio stesso secondo una prospettiva ad essi peculiare. I media, allora, non sono semplici strumenti, ma prospettive di visione degli (e di rapporto con gli) oggetti e soggetti implicati nella relazione comunicativa. Infatti, mentre il mezzo è esterno al soggetto, è "informazione ricevuta dal soggetto", la mediazione interessa il soggetto in quanto tale, è "formazione del soggetto".

d) Ciò comporta pertanto anche una nuova consapevolezza della relazione delicata tra il "fare comunione" della comunicazione, e le forme di mediazione possibile (o doverosa) di tale esperienza di comunione. L'amichevole affabulare dello speaker televisivo oppure la freddezza spettacolare di una funzione religiosa: ecco le alternative che mortificano l'esperienza comunicativa mediale nel mondo contemporaneo.

E' evidente, quindi, che in gioco sono tre esperienze, sulle quali ci dovremo soffermare:

- la comunicazione come un "fare comunione" (revisione del concetto di communicatio)

- la mediazione di tale esperienza (ampliamento del concetto di "media")

- la relazione delicata tra questi due "poli"

Chiarita questa visione di insieme, mi vorrei limitare, in questa breve conversazione, ad indicare alcuni assetti del pensiero teologico classico in rapporto ad alcune novità che i "media" propongono (come Internet e lo spot pubblicitario), mostrando come fosse presente anche in passato una consapevolezza alta e nobile di quella che solo recentemente abbiamo chiamato svolta linguistica e che costituisce il mutamento (non assoluto, come vedremo) della funzione del linguaggio per il rapporto di "comunicazione/comunione con la verità" e perciò anche di "comunicazione della verità". Tenterò di parlare del tema oscillando da Internet ad alcune sentenze di Tommaso d'Aquino, dallo spot pubblicitario ad una parabola buddista in 3 versioni, sperando di riuscire nel "dare a pensare" e soprattutto di saper fare comunione con voi, cioè di "comunicare" almeno un poco.

1. Internet e la raffigurazione fedele della realtà

Se la verità è la libertà dell'amore, e per accedere ad essa occorre il "rischio" della fede e la "non visione" della speranza, ciò significa, teologicamente, che "comunicare la verità" non può mai prescindere dal "comunicare con la (e nella) verità". Proviamo a scoprire questa legge segreta della comunicazione/comunione in una serie di 4 esempi.
Cominciamo con il riprendere una considerazione che finora ho solo accennato: la conciliazione tra segni e cose non è l'orizzonte entro cui la fede prende senso, ma è piuttosto l'orizzonte che dalla fede viene miracolosamente dischiuso: in altri termini è la "communio" di fede a dischiudere la possibilità del comunicare e non viceversa. Questo ruolo fondante della fede dal teologo non può essere perduto, e contribuisce a chiarire anche il rapporto tra "media" e "fede".
Infatti, ci sono aspetti delicati della fede (anzitutto la sua struttura sacramentale, il suo essere "ricevuta" nel sacramento come un dono) che non si lasciano mediare da qualsiasi segno, ma solo da alcuni segni e soltanto da un particolare uso di questi segni medesimi. Ora, tale "uso particolare" del segno sta alla radice del comunicare, ne è quasi la cellula originaria e l'atto istitutivo: per questo giustamente si è osservato che Internet è «kein normales Medium» (Weber, 3), proprio per il fatto che si «interpone» così potentemente rispetto alla immediatezza del "faccia a faccia": imitando la realtà fino alla virtualità, allontana anche radicalmente dalla immediatezza reale, pur simulandola come nessun altro media. E' così immediato da poter far perdere il gusto della immediatezza non virtuale, e tuttavia, proprio per questa sua singolare immediatezza, può anche preservare come nessun altro "medium" la "precarietà" del segno/significante in quanto tale** . Questo è anche, e radicalmente, il grande vantaggio e la grande possibilità di Internet*** . Dovremmo dire che Internet è forse l'immagine più bella della incompiutezza del reale: nelle home pages non vi è nulla che sia completo. Come «concretizzazione di un approccio frammentario alla lettura»**** , quella di Internet è una esperienza antica quanto il mondo, esperienza che la Scrittura ci sa presentare da sempre in modo efficace ed originario. Potremmo quasi dire che Internet, proprio per la sua caotica multiformità, può essere il medium più prossimo alla esperienza elementare del disorientamento e della mancanza di centro, della incompiutezza e della finitezza stessa della esperienza. Anzi, esso può garantire che questa esperienza resti imprescindibile per la fede.
Per valutare adeguatamente questo aspetto, dobbiamo considerare l'impatto più generale che un medium ha nei confronti del rapporto col reale. Esso in effetti non è mai soltanto un mezzo per garantire il rapporto con la realtà, ma anche sempre una prospettiva di rapporto con essa. Non è mai semplicemente l'oggetto del mio uso per raggiungere il reale, ma anche il soggetto che orienta il mio sguardo sul reale. Ora, quando il medium utilizza soltanto un codice (ad esempio quello verbale scritto, o verbale orale, o sonoro, o cinesico...) esso effettua già previamente una selezione molto forte di dati esperienziali, e così trasforma la realtà che incontra, stilizzandola come "testo", come "sinfonia", come "predica", come "fuga". Internet invece, proprio perché è un medium molto più complesso, lascia la realtà molto più "grezza" e perciò non è solo sofisticazione ultima, ma possibilità di riconsiderazione di una esperienza prima. Ha sottolineato bene questo fatto un bel libro, Il Talmud e Internet, in cui J. Rosen scrive:

«L'incongruente miscuglio di elementi che caratterizza l'universo di Internet, che può essere considerato il prodotto del guazzabuglio di informazioni della modernità e a volte sembrerebbe una sorta di tradimento dell'esperienza vera e propria, è in realtà più vicino alla vita reale di qualsiasi verità assoluta fondata sul principio di esclusione»***** .


2. Il primato della parola e il ruolo del linguaggio musicale


Quanto abbiamo scoperto per il prezioso contributo che Internet può dare ad un approccio più "complesso" al reale, appare in più di un passo della S.Th., e in particolare vorrei cominciare con una famosa questione della Summa Theologiae(I, 107, 1-5) dove Tommaso discute de locutionibus angelorum. Le "parole degli angeli" gettano luce sulle parole degli uomini. Qui il "paradigma rappresentativo" appare in tutta la sua forza: più volte Tommaso applica il principio per cui «locutio est ad manifestandum alteri quod latet in mente». Con questa concezione, è ovvio che la parola angelica è parola "per analogia", essendo il verbum interius la sua verità. Tale visione richiama alla mente quanto Tommaso sia attento a coniugare - nella essenza dell'uomo - ratio e manus, anima e corpus, intellectus e tactus! Così sembra che l'intermedio - tra la mano e la ragione - non abbia rilievo. Insomma, il linguaggio o è strumento della ratio oppure rimedio al corpo opaco e lento, che il segno sensibile può portare a trasparenza e a leggerezza.
Ma Tommaso, pur guidato da tale principio fondamentale, non ignora che il linguaggio non è solo manifestazione ad altri di un contenuto mentale. Infatti, quando affronta la questione del "discorso dell'angelo rivolto a Dio" è costretto ad articolare meglio la comunicazione mediante linguaggio, riscoprendo la dimensione della lode e della preghiera, della ammirazione e della benedizione, nella quale gli angeli - ma anche gli uomini - anzichè manifestare qualcosa, ricevono qualcosa, poiché in tal caso parlano «affinché al parlante si manifesti qualcosa». La ricezione piuttosto che la trasmissione diviene la logica predominante.
La stessa logica, d'altra parte, vale per il discorso che Tommaso fa - guarda caso, ancora una volta - a proposito della lode, quando scopre la possibilità che il "canto" e la "lode vocale" abbiano un funzione specifica rispetto alla "lode interiore".
Estremamente istruttiva è infatti la ricognizione dei due articoli della Summa Theologiae di Tommaso (II-II, q.91, aa.1-2) nei quali si riflette sulla necessità della lode verbale e della lode cantata. La strategia argomentativa di Tommaso sottolinea in modo illuminante il diverso statuto della parola in rapporto a Dio e in rapporto agli uomini: «verbis alia ratione utimur ad Deum, et alia ratione utimur ad hominem» (q.91, a.1, c.). Questa differenza segna lo spazio della parola nella celebrazione. Tale differenza è costituita essenzialmente dal fatto che la lode a Dio non è necessaria a Dio, ma a colui che loda. Anche qui ritorna la distinzione che abbiamo già trovato nella precedente questione I,107: ossia, nel rapporto con gli uomini, le parole servono ad esprimere al lodato la nostra idea; mentre nel rapporto con Dio le parole servono a portare coloro che parlano e coloro che li ascoltano a lodare Dio. La funzione "espressiva" è qui subordinata ad una funzione "affettiva" e "pedagogica".
Anche in questo caso vediamo al centro della attenzione una sorta di rovesciamento delle priorità, messo in moto da un particolare contesto - ancora quello della lode e della preghiera celebrata, ossia detta ad alta voce e cantata - nel quale contesto la logica rappresentativa del linguaggio sembra lasciare il posto ad una logica della relazione, della passione, dell'affetto. Ciò è sufficiente ad attestare, in un contesto insospettabile, la presenza di una irriducibilità del linguaggio liturgico alla logica di una comunicazione dominata dal principio strumentale della "espressione" di concetti.
La stessa teoria semiotica fondamentale di Tommaso - che riprende l'idea classica per cui «voces sunt signa intellectuum et intellectus sunt rerum similitudines» (S.Th.I, 13, 1c) e in base alla quale il rapporto tra le parole e le cose è sempre mediato dalle idee - è qui costretta a scontare l'eccezione di un contesto nel quale la logica primaria è quello del rapporto cosa-nome e non cosa-idea: l'origine dei "nomi" è solo collegata a "legami" e mai soltanto a "rappresentazioni": dell'origine non si dà rappresentazione, ma solo "miti-racconti" e "riti-liturgie" .


3. Credenza commerciale e incredulità civile: una singolare alleanza

Nel nostro contesto culturale, alla originarietà del modo simbolico, strutturalmente negata dalla teoria della coscienza illuminata, allude continuamente una prassi che potremmo definire "distratta, ma raffinatissima". Anzi, una tale prassi ha bisogno della nostra distrazione per restare efficace: si tratta precisamente dell'uso diabolico che lo spot pubblicitario propone del modo simbolico di comunicare. Perché esso possa funzionare occorre che venga confermato quel meccanismo che P. Sequeri ha così fotografato:

"La deriva mercantile dell'esistenza ha bisogno di un ecumenismo anestetico del comune sentire per rendere sopportabile l'ingegneria cosmetica che provvede alla produzione di una nuova specie umana, perfettamente adatta al ciclo dei consumi" .

Di questa affermazione, che sposo al 100%, vorrei mostrare la correlazione tra due dinamiche sorprendenti:

a) la comunicazione pubblicitaria utilizza in modo raffinato simboliche fondamentali, di cui tiene celato accuratamente il senso, per istituire una "comunione fittizia" con il cliente, che identificandosi con il valore simbolizzato nel prodotto, finisce per acquistare il prodotto con un atto di identificazione simbolica. L'atto di resistenza a questa cattura diabolica e di appartenenza fittizia può essere non soltanto una critica della ragione pubblicitaria, ma una diversa e più alta esperienza simbolica. Ma proprio qui la sociatà laica sembra dover rifiutare ragionevolmente una coscienza credente, per poter credere ad ogni cattiva coscienza.

b) la comunicazione simbolica del rito cristiano sembra oggi invertire sistematicamente questa virtualità. Appare non credere più che la autentica comunione viene vissuta secondo registri simbolico-rituali che non debbono essere spiegati mentre sono in esercizio. Così, intoducendo un registro didascalico ed esplicativo, noi di fatto interrompiamo continuamente la comunicazione, ostacolando di fatto il costituirsi di una esperienza di comunione sul mistero prima che sui valori. E paradossalmente abbiamo molto da imparare dalla raffinatezza con cui lo spot propone la sua comunione fittizia.


4. Il "modo simbolico" di Tommaso e la "percezione del mondo" in Merleau-Ponty. Tre letture di una parabola buddista.

In quest'ultimo passaggio mi sposterò per qualche istante a Parigi, cominciando col rievocare una famosa conferenza tenuta nel 1999, alla Sorbonne, dal Card. Joseph Ratzinger . Proprio all'inizio del testo egli dice così:

«L'uomo contemporaneo può riconoscersi molto bene nella parabola buddhista dell'elefante e dei ciechi. Un giorno, un re nel nord dell'India riunì tutti i ciechi della città. Poi fece passare davanti ad essi un elefante. Lasciò che alcuni ne toccassero la testa, dicendo loro che si trattava di un elefante. Altri riuscirono a toccarne l'orecchio o la zanna, la proboscide, la zampa, il sedere, i peli della coda. E, a seconda della parte che essi avevano toccato, risposero: è come una cesta intrecciata...come un vaso...come un vomere...come un deposito...come un pilastro...come un mortaio...come una scopa. Poi si misero a discutere gridando: l'elefante è così, no così...si gettarono l'uno sull'altro e fecero a pugni, mentre il re si divertiva» .

Per Ratzinger questa parabola mostra bene la sua somiglianza con la disputa contemporanea sulle religioni. In questa disputa la reciproca esclusione tra verità e religione viene superata dal cristianesimo, che, come continua Ratzinger

«ha avuto i suoi precursori nell'ambito della razionalità filosofica e non in quello delle religioni»

E poi conclude con queste affermazioni:

«la fede cristiana non si basa sulla poesia o sulla politica, le due grandi fonti della religione, ma sulla conoscenza. Essa venera quell'Essere che si trova a fondamento di tutto ciò che esiste, il "vero Dio". Nel cristianesimo la razionalità divenne religione, e non più sua avversaria. Stando così le cose, il cristianesimo, comprendendo se stesso come vittoria della demitologizzazione, vittoria della conoscenza e con essa della verità, dovette necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli: non come una religione particolare che ne reprimeva delle altre, non come una sorta di imperialismo religioso, ma piuttosto come la verità che rendeva superflua l'apparenza» .

La apparenza è "dissolta" dalla verità. I ciechi restano ciechi e l'elefante viene visto solo dai vedenti.
Possiamo però scoprire che 51 anni prima, Paul Claudel, su una prima pagina del «Figaro littéraire» del 1948, ci presentava un'altra versione di questa "parabola". Ecco le sue parole di allora:

«Esiste una stampa giapponese che raffigura un elefante circondato da ciechi...Il primo abbracciando una gamba dice: "è un albero". "E' vero", dice il secondo, che ha scoperto le orecchie, "queste sono le foglie". "Niente affatto", dice il terzo, facendo scorrere la mano sui fianchi, "è un muro!" "E' una fune" grida il quarto afferrando la coda. "E' un tubo" risponde il quinto che ha a che fare con la proboscide...Così è anche la nostra Madre, la Santa Chiesa cattolica, che dell'animale sacro possiede la stazza, l'andatura e il temperamento bonario, per non parlare della doppia difesa in puro avorio che gli esce dalla bocca. La posso vedere con i quattro piedi immersi nelle acque, provenienti direttamente dal paradiso, che con la proboscide spande copiosamente su di sé per battezzare il suo enorme corpo»

Come è evidente, questa lettura della parabola è assai diversa dalla prima, poiché coglie la apparenza non come "altro" dalla verità, ma come apparire della verità. Qui la «antropologia» è la possibilità non di essere ciechi, e neppure di essere «vedenti» nel senso della scienza, bensì di cogliere ciò che «supera» la realtà, l'elefante come animale «sacro» e come immagine ricca e monumentale della stessa Chiesa.

E, tuttavia, questo non basta ancora: giungiamo alla terza "lettura", con la quale restiamo a Parigi, nello stesso anno 1948, ed ascoltiamo Maurice Merleau-Ponty commentare alla radio il testo di Claudel, pochi giorni dopo averlo letto sul giornale. In questione vi è la possibilità che la «antropologia moderna» sappia rappresentare il risveglio del mondo percepito. Con essa, dice Merleau-Ponty,

«impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione...In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso»

E' proprio la possibilità di valorizzare animali, bambini, primitivi e pazzi la via "fenomenologica" per fare un discorso fedele alla "res", per andare "verso le cose stesse", per "comunicare con la verità" e perciò anche per poter mediare la verità.

A questa lettura corrisponde, sorprendentemente, un testo del giovane S. Tommaso, recentemente riproposto da parte di una bella rilettura : si tratta di una responsio in Scriptum super libros Sententiarum, prol. q.1, a.5, ad 3um:

"Ad tertium dicendum quod, poetica scientia est de his quae propter defectum veritatis non possunt a ratione capi; unde oportet quod quasi quibusdam similitudinibus ratio seducatur: theologia autem est de his quae sunt supra rationem; et ideo modus symbolicus utrique communi est, cum neutra rationi proportionetur"
Anche questa affermazione, che forse potrà sorprendere in quanto attribuita a Tommaso, mostra la delicatezza del rapporto tra "comunicazione" e "media". E lo fa scoprendo la delicatezza di diversi registri, diverse mediazioni, articolate stratificazioni e dimensioni, grazie alle quali la fatica razionale del concetto è delimitata - al di sotto e al di sopra - dal necessario ricorso al modo simbolico, per il quale la strategia primaria non è quella della rappresentazione ma della relazione, non è quella dell'autonomia del significato dal segno, ma quella della dipendenza del simbolo dal segno.

5. Conclusioni

Proprio per questo motivo, in ragione di questa differenza di logica, dobbiamo ammettere - per le stesse leggi intrinseche alla celebrazione rituale e alla trasmissione scritturistica - che non tutto ciò che è religioso/liturgico si lascia "impacchettare" negli standard comunicativi (radio, Tv, CD, Internet...) con cui abbiamo oggi a che fare. Si ha dunque pienamente ragione nel dire, con Sequeri, che

"[occorre]...sapere e stabilire la differenza fra ciò che, a riguardo della fede, può essere esposto all'effetto mediatico e ciò che non lo può essere" .

Ma tale differenza deve essere fatta propria anche dalla teologia, che deve in certo modo interrogarsi davvero a fondo su quali siano veramente le sue "fonti", ciò da cui "riceve" ciò che poi può "trasmettere" - ossia continuare nella tradizione, e non solo "salvaguardare" una tradizione come un "quadro" in un museo o un affresco su una parete... - , e mediante quale "forma" (proclamazione, lettura, ascolto, azione rituale...) può davvero ricevere ancora - qui ed ora - questa "trasmissione".
Proprio questa differenza, "sottile come un capello", distingue il "servizio della parola" dalla "strumentalizzazione della Parola"; distingue cioè la "semplicità divina"- che coinvolge tutto l'uomo nell'ascolto risposta - dalla "inaudita illusione" umana - che vorrebbe oggettivare Dio (in un testo o in un rito) e perciò immunizzarsi da esso.
In fondo, credo che la Chiesa non debba far altro che annunciare e celebrare, ovvero non debba annunciare e celebrare altro che questa differenza, "offrendone chiarimenti, ma rispettandone il fenomeno" come dice E. Jüngel per sintetizzare il lavoro teologico.
Questa è la differenza che in Gesù di Nazareth ha riconciliato Dio con ogni uomo e ogni uomo con Dio, comunicando la verità nella forma delicata di un "logos" che è comunione nella verità dell'amore.


* K. Barth, Anselmo d'Aosta. Fides quaerens intellectum. La prova dell'esistenza di Dio secondo Anselmo nel contesto del suo programma teologico, ed. M. Vergottini, Brescia, Morcelliana, 2001, 120: il corsivo è di Barth.

** Giustamente W. Weber osserva che «Die Ambivalenz der Medien ist jedoch nicht nur inhalts- oder verwendungsbedingt. Auch ihr spezifisches Potential, ihre "Eigengesetzlichkeiten" spielen eine bedeutende Rolle. Mc Luhan hat im Blick auf diese Gegebenheit das bekannte Paradigma "the medium is the message" formuliert. So wird besonders den audiovisuellen Medien nachgesagt, sie schränkten die kritische-reflektierende Auseinandersetzung mit den Inhalten ein» (p.12). Nella nostra breve ricerca cercheremo di considerare anche le opportunità che questo "salto" comunicativo - così rischioso - comporta in termini positivi, come riconoscimento di una comunicazione non riconducibile - almeno in primis- alla nostra soggettività coscienziale e razionale. Cfr. sul tema G. Bonaccorso - A. Grillo, La fede e il telecomando. Televisione, pubblicità e rito, Assisi, Cittadella, 2001, soprattutto 105-106.

***
Proprio perché imita il reale fino alla realtà virtuale, può mantenere molto più netta la differenza dal reale rispetto ai segni più semplici. Il suo spessore di significante non permette mai che venga preso come significato o come referente: resta solo segno e proprio questa è la virtù.

**** Jonathan Rosen, Il Talmud e Internet. Un viaggio tra mondi, Torino Einaudi, 2001, 17.

***** Rosen, Il Talmud e Internet, 126: il corsivo è mio.











 

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